La comunicazione non verbale

Nel “gran teatro del mondo” non siamo tutti attori, ma ci comportiamo inconsapevolmente come se lo fossimo.                                                                                     LA COMUNICAZIONE “NON VERBALE” TRA LE POPOLAZIONI DELL’ANIENE

E’ quella tipica delle culture mediterranee, ma con qualche nostra specificità.

Sembrano osservazioni ovvie o solo curiose, ma sono da conoscere meglio.

Basta una buona “osservazione partecipante” (che può sostituire ore e ore di  riprese filmate) per cogliere l’essenziale.

L’ovvio è che noi comunichiamo non solo con le parole (che tra le popolazioni dell’Aniene non sono ricche di vocabolario e di spiritosaggini “aggressive” come in Toscana o nei Castelli Romani), ma anche con l’espressione del viso, il tono della voce, incrociando le braccia, guardando fisso davanti a noi, col contatto visivo, postura del corpo, gesti e gesticolazione, tatto, distanza fisica.

Spesso le parole sono contraddette dal “non verbale”, ad esempio quando si afferma una cosa come vera e giusta, e intanto ci si gratta la testa…

Il “non verbale” dà forza al discorso, rafforzandolo o disconfermandolo.

Le “espressioni facciali”, sono ben di più di quelle degli emoticon, come sanno bene gli attori: si calcolano più di diecimila sfumature emotive diverse. Espressioni negative: serrare i muscoli mascellari, corrugare la fronte, socchiudere gli occhi o serrare le labbra (come i dittatori di ogni latitudine e tempo). Il pessimismo permanente si stampa nella curva delle labbra verso il basso. Espressioni positive:

fronte “spianata”, bocca non contratta, sorriso.

Gli occhi, lo sguardo.  Guardare l’altro direttamente negli occhi, può essere male interpretato. La regola d’oro è guardare l’interlocutore piegando leggermente il corpo verso di lui e guardandolo nel centro della fronte. Oppure, girare leggermente lo sguardo intorno agli occhi dell’altro. Guardare da un’altra parte significa che il dialogo non ci sta interessando.

Postura. Sistemarsi davanti all’interlocutore dall’altra parte della scrivania, significa manifestare autorità. Stare “sdraiati” significa disimpegno. Leggermente piegati in avanti, indica attenzione. Le mani sono un potente mezzo espressivo, talvolta trasbordante. Uno studente fu invitato a infilare i pollici nei passanti dei pantaloni, per tenere a freno le mani, mobilissime. Invano. Le mani continuavano ad agitarsi. La stretta di mano è molto significativa, a seconda della pressione esercitata.. Se è troppo forte indica volontà di dominio. Si racconta che il re d’Italia , in visita a L’Aquila ricevette una stretta di mano da un montanaro, accompagnata dal saluto:”Maestà, accetti questi fiori , omaggio dell’Abruzzo forte e “gentilo”. Al che il re: “Forte sì, ma gentile,,,,poco!”.

A una signora o a un superiore non si dà la mano per primi: si aspetta rispettosamente.

Tatto. Carezze. E’ tutto molto importante, specialmente per i neonati.  Toccare la mano o la spalla dell’altro è normale nelle culture del Mediterraneo. Non così altrove.

Da noi accarezzare è raro. Lo si fa col neonato. Ma poi, crescendo, si pensa che possa abituarsi male…. E si smette; o lo si fa solo mentre dorme. Incredibile! Le mamme africane tengono in braccio i figli molto a lungo, dando loro un senso di protezione e sicurezza. Il Papa Francesco si è fatto accarezzare da una bambina non vedente: un esempio. La “pacca sulla spalla” è un incoraggiamento e stima, tra pari, o da parte di un “superiore” o anziano..

Fare “ciao” con la mano è un universale. Fare spallucce è segno di noncuranza. Ciascuno di noi difende una propria distanza fisica (prossemica) verso gli altri: non amiamo la ressa sugli autobus. Tre metri di distanza dai “superiori” o più anziani, due metri per gli altri, possono andare bene.

Tono della voce. E’ molto importante, a supporto delle parole dette. Gridare, oppure scrivere con tutte lettere maiuscole, significa imporsi. Parlare con un filo di voce e quasi sibilando è segno d’incertezza.

Nei comizi politici e nei “comandi” militari, il tono della voce è determinante. Un terribile proverbio popolare – stroncatura: ”Predicatore che predichi allo vento; se predichi per me non strillar tanto!”.

L’abito. Fa il monaco e il parlante, eccome! Un abito stravagante rende difficile la comunicazione o accentra l’attenzione sull’aspetto del parlante e non sulle sue parole, concetti, sentimenti. La moda vorrebbe rendere “modale” (maggioritario) lo stile di comunicazione del vestito. E’ meglio piegare, nel possibile, l’abbigliamento alla propria personalità. All’Estero si dice “formal” l’abbigliamento ufficiale rigoroso e “casual” quello trasandato… Per un colloquio di lavoro o un esame, l’abbigliamento giusto vale il 50% del successo. Una volta i maschi portavano il cappello normalmente. Tanto che ironicamente si diceva di un giovane povero :”Suo padre marcia in cappello!”. Quando, invece, se era la madre a andare in cappello, allora sì, sarebbe stato segno di distinzione borghese o nobiliare. Il velo sul capo era una distinzione delle donne in chiesa. Tanto era l’orgoglio maschile di voler portare in cappello calcato sulla testa, che nel Sud, governato dagli Spagnoli, i Baroni locali organizzarono una congiura per ottenere di portare i cappello in testa davanti al Viceré di Spagna….

In auto. Gesti e gestacci, purtroppo, ci sono troppo spesso. E anche le minacce e le “vie di fatto”. C’è chi lascia il volante per telefonare, con grave rischio per sé e per gli altri. E’ un fenomeno grave! Le cinture di sicurezza, ormai, le indossiamo. Ma molti continuano a fumare in auto. Gli strombazzatori sono molti, troppi. Al semaforo rosso capita che nel momento dell’apparire della “pastiglia Valda” del verde, a una semplice esitazione dell’auto precedente, scatta una raffica di clacson: la misura di un nanosecondo! Se si sente giungere un’autoambulanza, si accosta disciplinatamente. Ma qualcuno si aggancia alla scia della stessa autoambulanza Malcostume.

In Internet. Si direbbe che Internet è “verbale”, ma è anche non verbale (cliccare, scegliere foto e inviare le faccine di emoticon). Poi c’è la fenomenologia degli iperconnessi, compulsivi, “coatti” e… per contro, i refrattari. In ogni caso, c’è tempo per acquisire le buone abitudini degli internauti, mediante l’etica e la buona educazione (tecnicamente “netiquette”), perché, nelle sue varie forme, Internet ha… i secoli contati !

Nel seggio elettorale. Votiamo dal 1946. Col tempo si è stratificato un costume medio. Si entra nel seggio salutando, ma con un lieve sorriso un po’ imbarazzato. Si vota sempre un po’ nervosamente. I segni a matita sono troppo calcati. La consegna della matita e della scheda votata, sono una piccola liberazione!

I selphie, le foto dappertutto. Sono mode recenti e discutibili. Le foto fai-da-te, con o senza il bastoncino-stick  sono spesso ridicole, con nasoni inverosimili e con “amici” improvvisati molto spesso con un sorriso imbarazzato,che non vedono l’ora di ricomporsi .. e dimenticare l’importuno auto fotografo. Una volta erano le forme “graffite” sui muri ad indicare il passaggio  di stolti: “Nomina stultorum scribuntur ubicunque::.”

La manina agitata di fronte alla telecamera. Il regista tv ha appena scelto un’inquadratura significativa, quando, una o più persone inquadrate si mettono ad agitare la mano… e a rovinare quel pezzetto di tele-ripresa. Col tempo si capirà che non si deve posare né improvvisare manifestazioni di festa di fronte alla tv. Basta restare se stessi, normalmente.

I cortei. Le manifestazioni. I partecipanti vorrebbero comunicare messaggi “sociali” mediante marce e sfilate, in teoria silenziose. Ma qualche slogan “gridato” c’è, come ci sono le bandiere e i cartelli. Se il silenzio è vero, i manifestanti restano un po’ delusi, specie se non c’è né tv, né radio, né stampa….

Le bandierine. Agitate moderatamente nelle cerimonie ufficiali, sono un modo per mobilitare i ragazzini e magari indurre un certo entusiasmo.

Contare con le dita di una mano. Con l’altra mano. Noi lo facciamo a partire dal pollice; gli anglosassoni a partire dal mignolo. Chissà perché.

Il saluto degli immigrati. Sono portati a dare la mano, per primi, a tutti. I mediatori culturali dovrebbero spiegare loro il senso del nostro “non verbale” e confrontarlo col loro. Si eviterebbero equivoci.

E se siamo stressati? E’ meglio concedersi una pausa. La comunicazione umana è, e deve essere, impegnativa. Altrimenti è vaniloquio: bla-bla-bla..

Curiosità ulteriori.

Alzare la mano con due dita a V non significa sempre voler andare al bagno…

L’indice alzato in alto si usava per chiedere un passaggio in auto. “Pollice verso” e “pollice recto” sono antiche espressioni per dire “no” e “si”. “Maramao” con le due mani aperte davanti al naso, no si fa: è comunque offensivo.Per non parlare del gesto dell’ombrello.

SPECIFICITA’ NELLA VALLE DELL’ANIENE

Il saluto era sempre ad alta voce, da una certa distanza e chiamando  per nome.

Riconoscere e chiamare per nome sono segni di grande considerazione e rispetto.

Per indicare “ho fame” si colpisce la propria pancia con la propria mano, di taglio.

Per dire “no” ci si esprimeva anche con un “fischiato” “‘nzì”. In montagna, a chi gli gridava da lontano: “Li hai visti i miei buoi?”. L’interessato rispondeva con un incomprensibile “’nzì”!

Per indicare “pastasciutta” si fanno girare due dita in senso orario.

Per indicare noia si sbuffa, o si dice un “Aùffaaa”.

Le discussioni calcistiche mettono in risalto il peggio del nostro modo di comunicare.

Tenere il cappello in mano dappertutto significa chiedere l’elemosina (mai stato nel nostro costume di Aniensi), ma era prova di rispetto per l’avvocato, il medico, il parroco e il pubblico ufficiale.

Non si bacia più la mano o l’anello neppure al Vescovo.

Il modo di farsi tagliare i capelli è già una comunicazione.

Nessuno ama portare più un distintivo all’occhiello della giacca: una volta era il “manifesto” delle nostre idee.

Le magliette delle squadre di calcio sembrano un legame tra tifosi, a sfida degli altri.

Andare sottobraccio alla fidanzata o moglie era in passato cosa rara. E non socialmente approvata…: ” Che, non si reggono in piedi da soli?”

L’ultra-comunicazione attraverso i social sono un problema grave, senza vere regole e senza autocontrollo o controlli estrinseci.

Entrando in chiesa si fa un Segno della Croce approssimativo, concluso con un incomprensibile bacio delle proprie dita.

Al ristorante e al bar, per definizione si fanno “discorsi da bar” e ad altissima voce. Sembra che quel vociare sia segno del successo della comitiva.

Non esiste un’etichetta su come ci si rivolge al proprio Sindaco o Assessore. Lo si fa manifestando un rispetto esagerato e (forse) un po’ ironico.

In Chiesa. Entrando in chiesa si fa un Segno della Croce approssimativo, concluso con un incomprensibile bacio delle proprie dita, e talvolta si immerge la mano nell’acquasantiera. In chiesa non dovrebbero essere regole coercitive di comportamento: solo gesti e simboli ritualizzati o “guidati” dal Celebrante. Eppure… nelle file non sempre tutto va bene. Il “segno di pace” è una stretta di mano… talvolta muovendosi solo per cercare amici e conoscenti. Preghiamo a mani giunte (segno di unione con Dio) o con le braccia aperte e le palme in alto, segno dell’orante nell’antica tradizione catacombale e paleocristiana, poi praticata dai Consacrati (secondo Don Vincenzo Bo). Santa Comunione: ancora la “Particola” sulla lingua o nella mano aperta. Quest’ultima modalità è antichissima. Tra i cristiani Ortodossi, solo la seconda modalità, trattandosi di  vero Pane consacrato.                                                Posizione verticale, inginocchiamento, genuflessioni, inchini discreti,segno di croce sulla fronte, sulle labbra e sul cuore, battersi il petto: per il fedele, o c’è l’invito formale del Celebrante (ma può essere fastidioso) o tutto è lasciato “ad libitum”.

Tutta la simbolica relativa all’interno di una chiesa è da riproporre ai fedeli. Ma non durante lo svolgersi dei riti. Per i Consacrati c’è anche un eccesso di gesti e simboli.

Uscendo di chiesa alcuni fedeli continuano a “segnarsi” con l’acqua santa… Cosa che va fatta, ma solo quando si passa da un luogo profano a uno sacro, e non viceversa.

Le processioni. Erano e sono composte e partecipate. Chi assiste dai bordi della strada prova a salutare con qualche imbarazzo, i partecipanti. Il canto sacro distoglie dalla distrazione e aiuta a partecipare. Le “precedenze” (Confraternite, AC, scout, Santo, Autorità e popolo) ribadiscono l’ordine sociale. La fatica indotta anche dall’incedere solenne (passo lentissimo) è considerata anch’essa parte ”dovuta” del rito. Si aderisce con la mente e con il corpo. Si rientra, con un sentimento, pur modesto, di fiducia e serenità.

I pellegrinaggi. Comunicano a se stessi e ai fratelli nella fede una rassicurazione reale sulla bontà del credere. La fatica può essere anche estrema: per il Santuario della SS. Trinità è pesantissima. Al ritorno ci si sente rinati. E pronti per riprendere la vita ordinaria fino al prossimo pellegrinaggio. Ogni impegno, anche nelle campagne,è sospeso per il “tempo sacro” del pellegrinaggio. Chi assiste al cammino dei pellegrini , o aderisce spiritualmente al valore del rito e della tradizione, oppure considera tutto come una incomprensibile stranezza. Alcune Suore spagnole, vedendo per la prima volta i pellegrini di Subiaco, stanchissimi, di ritorno dal Santuario della SS. Trinità, -con labaro della “Compagnia” e della Confraternita, santini e “pennacchieri” nel cappello- non trovarono di meglio che esclamare :“ Ecco perché molte persone perdono la fede: a causa di questi spettacoli!”. Non avevano capito nulla!

La passeggiata, lo “struscio” o “vasca”. Era un costume borghese: passeggiata domenicale e gelato. Lo “struscio” era per ragazzi e ragazze:  per “mirare ed essere mirati”, con sguardi flirtanti in tutte le direzioni. Occasione per sfoggiare abiti nuovi e acconciature alla moda.

Il ballo. Da noi era detto “trescone” ed era un ballo ritmato al suono di un organetto o, al massimo, di una fisarmonica. Poche coppie e tutti,  intorno, a guardare. I più piccoli provavano a ballare, ma, aumentando continuamente il ritmo finivano col “sardarione”, fino alla sfinimento e alle risate liberatorie. Era sospeso il tempo degli impegni ordinari: la festa domestica.

Lo sport. Una volta c’era la fatica fisica (quasi) per tutti. Si andava molto a piedi. Erano apprezzati i “gesti atletici” derivati da sforzi di lavoro ordinari: correre, saltare, spazzare legna, tirare una fune…Poco apprezzati gli sport del tutto inventati. Il calcio da noi ha avuto uno sviluppo lento. Adesso è una specie di religione: specialmente il calcio parlato,”tifato”, visto dappertutto, anche pagando.

 

Gli sportivi ora si fanno notare fuori delle palestre, per la sacca che portano  a spalla e una certa esibizione di forza e di decisione. Ma la fatica fisica era un’altra cosa!

Giuseppe Cicolini